Venerdì, 6 Giugno 2025

Attualità

L’amara esperienza di un manduriano

Sedici mesi per una risonanza, altrimenti paga

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Un manduriano di 57 anni in cassa integrazione e padre di quattro figli, si è trovato davanti all’amara realtà del sistema sanitario pubblico italiano. Colpito da forti dolori alla schiena, probabilmente dovuti a un’ernia lombosacrale, ha bisogno urgente di una risonanza magnetica per confermare la diagnosi e valutare eventuali cure o interventi. Ma il primo appuntamento utile con il Servizio Sanitario Nazionale è fissato per il 26 settembre… del 2026. La sede più vicina disponibile è l’ospedale “Di Venere” a Carbonara di Bari, a 120 chilometri di distanza. Dovrà attendere quasi un anno e mezzo e affrontare una trasferta di 240 chilometri andata e ritorno, con tutto ciò che comporta in termini di spese e fatica.

Nel frattempo, l’unica possibilità per alleviare il dolore è ricorrere regolarmente ad antidolorifici. Una soluzione provvisoria che rischia però di provocare ulteriori danni alla salute. Il paradosso è che esami simili sono disponibili in pochi giorni presso strutture private, ma al costo di circa 180 euro. Una cifra che quest’uomo, operaio in cassa integrazione come molti ex dipendenti dell’ex Ilva, non può permettersi. Quei soldi servono per far vivere la famiglia, e la salute – confessa amaramente – finisce inevitabilmente in fondo alla lista delle priorità.

Questa vicenda, per quanto ordinaria nel contesto attuale, mette in crisi uno dei pilastri fondamentali della sanità pubblica: l’accesso equo e tempestivo alle cure. L’uomo non rientra nei casi classificati come urgenti, perché non è in pericolo di vita, ma resta comunque intrappolato in un sistema che non ha risposte concrete per le situazioni gravi ma non emergenziali. L’ospedale cittadino Marianna Giannuzzi, nonostante sia dotato di apparecchiature moderne, riserva le sue risorse ai casi interni, senza disponibilità attraverso il CUP per l’utenza esterna.

Con amara ironia, il protagonista della vicenda commenta la celebre frase “prevenire è meglio che curare”: per chi ha reddito, sì; per lui e per tanti altri in condizioni simili, no. In attesa della tanto sospirata risonanza, il dolore e l’incertezza restano compagni quotidiani. E la sanità pubblica, ancora una volta, si rivela una corsa a ostacoli dove la tempestività è un privilegio, non un diritto.

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