Sul quotidiano “Avvenire” è stata pubblicata nell’edizione di ieri la storia di Antonio, un savese di 25 anni che quando ne aveva 15, malato di cancro all’intestino, è stato aiutato da “Peter Pan”, l’organizzazione romana che supporta e accoglie le famiglie che portano i propri figli, bambini e adolescenti, a curarsi negli ospedali della capitale.
«Giocavo a pallone con gli amici in mezzo alla strada, libero e spensierato. Un giorno, all’improvviso – racconta Antonio -, ho cominciato ad avvertire un fastidio atroce alla schiena. I giorni passavano e quel dolore non mi abbandonava, anzi, si infittiva. Così, accompagnato dalla mamma, Agata, e da mia sorella Sara, che è infermiera, ho cominciato a sottopormi a numerosi accertamenti, che hanno presto rivelato la diagnosi di tumore all’intestino».
Dopo la terribile diagnosi la famiglia di Antonio decise di affidarsi alle cure dell’oncologia pediatrica del Bambin Gesù dove il quindicenne affrontò un difficile intervento chirurgico e delle complicanze legate all’anestesia per cui fu ricoverato in rianimazione. «È stato un momento drammatico per tutti – racconta il giovane al quotidiano dei Vescovi -, oltre all’angoscia per le mie condizioni, i miei vivevano in grande difficoltà, senza nemmeno un posto fisso per dormire, costretti in un primo tempo a passare le notti in macchina e poi ad alloggiare in un bed and breakfast, sostenendo un grande peso economico».
Le cure post operatorie prevedevano un anno di terapia e quindi, per i parenti che lo accompagnavano, la permanenza continua nella capitale.
E oltre alle fatiche del presente si aggiungeva il disorientamento per il futuro. I medici, infatti, hanno prospettato un anno di cure da seguire in ospedale, perciò si è posta subito la necessità di trovare un appoggio abitativo vicino al Bambin Gesù. Una situazione imprevista e complessa, che non sapevamo come gestire». Così un infermiere del reparto gli indirizzò all’organizzazione “Peter Pan” che garantì appoggio, assistenza e un alloggio per Antonio e sua madre che non lo lasciava un attimo.
«Entrando nella casa che ci ha accolto – racconta il manduriano alla giornalista di Avvenire, Paola Molteni -, ho visto un mondo nuovo, finalmente a colori. Ero circondato da bambini e ragazzi di etnie e luoghi diversi, tutti impegnati ad affrontare malattie e cure con coraggio e speranza».
Antonio ricorda così alla giornalista quella permanenza nella casa di “Peter Pan”. «Eravamo in otto famiglie e parte le camere e il bagno, tutti gli altri spazi erano comuni. Mangiavamo tutti insieme, attorno a un tavolo enorme, dove consumavamo ogni giorno pasti diversi, cucinati da mamme di Paesi differenti. In quel momento io ero un adolescente arrabbiato, ce l’avevo con tutti, non volevo uscire dalla mia camera né parlare con nessuno», confida. «Ma loro, i medici, l’intero personale e i volontari, mi sono stati vicino, spronandomi fin dall’inizio, senza invadenza, a uscire dalla solitudine e mescolarmi ai miei coetanei. È stata questa la cura più preziosa», assicura ad Avvenire.
Oggi Antonio è guarito, lavora in un’azienda che produce gruppi elettrogeni e da 4 anni è fidanzato con Veronica, con la quale convive.
L’articolo completo su Avvenire
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