Uno degli elementi che caratterizzano la campagna salentina (ma in certi casi anche l’abitato) è rappresentato certamente dalle torri colombaie, svettanti edifici turriformi a pianta generalmente cilindrica ma anche quadrata, che serviva ad ospitare i colombi, che, allevati con grande cura, rappresentavano una fetta importante dell’economia rurale. La rivoluzione agricola cominciò in età medievale, dopo l’abbandono secolare dei campi dovuto alla fine dell’Impero Romano, e disegnò un nuovo panorama agrario, ricco di peculiarità interessanti. L’allevamento dei colombi risale ad epoca remota, ma a detta del prof. Antonio Costantini (Masserie del Salento, Congedo Editore) probabilmente la costruzione di edifici dedicati all’allevamento di questi volatili si può fare ricondurre alla metà del XIII secolo. Era il periodo in cui l’Imperatore Federico II (che governava soprattutto dall’Italia meridionale) manifestò la sua passione per la caccia col falcone. A partire dal ‘400 in poi, però, si comincia sistematicamente ad erigere questi grandi monumenti, che divennero quasi opere d’arte nel ‘500, che consentivano una facile nidificazione dei volatili, che entravano nella torre dall’alto (priva di copertura), alloggiando nelle centinaia di nicchie predisposte. Una piccola porta consentiva all’uomo di entrare all’interno, ed una serie di scalette ricavate dagli stessi conci in fase di costruzione sulla parete, accompagnava l’allevatore in alto, accedendo così alle uova, ed ai giovani volatili, prima che questi potessero volare. Per via delle alte qualità nutritive, la carne di colombo veniva utilizzata per l’alimentazione dei bambini e degli anziani, ed un brodo preparato con essa era il cibo prediletto delle donne che avevano appena partorito. Inoltre la columbina, ossia gli escrementi dei volatili, era utilizzata nella concia delle pelli, ed era ritenuta un ottimo fertilizzante per i campi. Dell’allevamento dei colombi se ne occupò persino la regina Maria d’Enghien, che nel suo Codice dichiarava, quasi minacciosa “che nulla persona ausa occidere, o menare con balestra, oy con archi alli palumbi de palumbaro. Né pigliare dicti palumbi con riti, oy costule, excepto se fusse patruno. Et chi nde fara lo contrario cadera alla pena de uno augustale”. Concetto ripreso in toto nei Capitoli della Bagliva di Galatina (1496-1499), ma anche nei Bandi Pretori di Torchiarolo (1667) e Novoli (1716), dove si elencano le severe punizioni per chi cerca di catturare o uccidere i colombi allevati, che partivano da un minimo di 15 giorni di carcere. Tutto questo ci fa capire il grado di considerazione che aveva questo allevamento, ed il commercio che ne conseguiva. Commercio che girava nelle mani del nobile o del potente ecclesiasta proprietario terriero di turno. Soltanto nel 1789, con la caduta dei privilegi feudali ancora vigenti fin allora in Terra d’Otranto, i contadini acquisirono il diritto di uccidere i colombi che vedevano razzolare sui loro campi seminati. Riporto la teoria di un amico, Alberto Signore, per il quale la costruzione di così tanti colombai in Terra d’Otranto risale al periodo in cui Bisanzio comandava su questa parte d’Italia, ed utilizzava i colombi per le comunicazioni attraverso il canale d’Otranto, fra una sponda e l’altra dell’Impero. Personalmente non ho alcuna prova per sostenere l’idea dell’amico, che fa risalire le colombaie più arcaiche del territorio (Ugento e Otranto) proprio a quel periodo. Magari questo spunto illuminerà qualche dotto, o illuminerà noi!
Alessandro Romano
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