Un quarto giovane manduriano, non indagato, doveva trovarsi all’appuntamento del 22 febbraio del 2023 quando Natale Naser Bahtijari, il leccese di origine rom, fu ucciso e gettato nel fossato di un cavalcavia a Manduria. Le si apprende dalle motivazioni della sentenza che condanna i tre presunti autori del delitto, Vincenzo Antonio D’Amicis, Domenico Palma D’Oria e Simone Dinoi, rispettivamente all’ergastolo, a 25 e 27 anni di reclusione.
Nelle 92 pagine in cui il presidente della Corte d’assise del Tribunale di Taranto, Filippo Di Todaro, ricostruisce punto per punto cosa avvenne quella notte tra il 22 e il 23 febbraio del 2023, c’è una parte dedicata ad un quarto giovane, amico dei tre imputati, che fu insistentemente invitato da D’Amicis a presentarsi al bar Bunker, nel centro storico di Manduria, dove avvenne la prima aggressione della vittima.
Di questo c’è prova in due telefonate e due messaggi whatsapp in cui l’imputato principale invitava insistentemente l’amico, che chiameremo Giorgio (nome di fantasia) a recarsi nel luogo dove avrebbe dovuto incontrare il leccese. In queste due telefonate “Giorgio” si rifiuta di andare perché doveva recarsi a Francavilla Fontana rimandando l’incontro al giorno dopo. «Se si può fare domani tanto di guadagnato Vincè», risponde l’amico a D’Amicis che insite: «no, che ora è venuto un amico urgente capito? E io ti ho pensato subito a te perché…».
Secondo la ricostruzione del giudice, D’Amicis quella sera «cercava la spalla di un amico in grado di aiutarlo al cospetto del Bahtijari». “Giorgio”, infatti, veniva descritto dagli agenti del commissariato di Manduria come un ragazzo «da una notevole prestanza fisica» noto «per la sua propensione alla violenza». Se avesse accettato l’invito di D’Amicis, quasi sicuramente Giorgio sarebbe stato coinvolto nel terribile delitto che fu consumato quella sera ad opera dei tre giovani manduriani sulle cui responsabilità precise e identiche responsabilità il giudice non ha dubbi.
Nelle motivazioni della sentenza, infatti, il presidente della corte, Di Todaro, annulla le eccezioni fatte dagli avvocati difensori che puntavano ad attribuire differenti responsabilità dei protagonisti distinguendo il momento in cui fu inferta la ferita mortale alla vittima. Sarebbe stato accertato, infatti, che una prima violenta aggressione avvenne all’interno del bar Bunker a cui ne seguirono altre due alla periferia della città dove il corpo morente del giovane rom fu scaraventato nel fossato colpito da 23 ferite da coltello e numerosi traumi da calci e pugni.
«…la conclusione cui si è pervenuti in tema di pari responsabilità di tutti gli imputati – si legge nella sentenza di primo grado -, non è destinata a mutare neppure qualora si voglia prendere in considerazione la contraria e non condivisibile ipotesi prospettata dalla quasi totalità dei difensori e cioè che la coltellata mortale sia stata inferta dal solo D'Amicis all'interno del bar Bunker e quindi nella prima fase dell'aggressione». E ancora. «Sulla scorta di quanto precede ed in estrema sintesi – si legge nella sentenza -, si ritiene allora che la coltellata mortale sia stata inferta nella seconda fase dell'aggressione allorquando, a prescindere dall'autore materiale dell'atto, erano pienamente partecipi e consapevoli tutti gli imputati e che comunque, anche diversamente opinando, nulla cambierebbe in concreto giacché le condotte compiute da Dinoi e D'Oria sono avvinte, sotto il profilo oggettivo, da connessione causale rispetto all'evento verificatosi in concreto e, sotto quello soggettivo, da un collegamento finalistico nel senso cioè che tutti si sono rappresentati e hanno voluto la morte del Bahtijari che si è verificata come effetto dell'azione combinata di tutti i concorrenti e, quindi, anche di quelli che eventualmente non hanno posto in essere l'azione tipica del reato».
Il collegio difensivo era composto dagli avvocati Lorenzo Bullo, Michele Iaia, Massimo Chiusolo, Armando Pasanisi, Franz Pesare.
Nazareno Dinoi
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